MUORE LA SPERANZA NELLA CAPITALE
I cittadini italiani lanciano un grido di disdegno
Roma-"Che ali vogliamo aggrappare alla nostra libertà?".
Questa è una domanda provocatoria che sentii per radio durante il viaggio di ritorno da Roma a Milano. Stavo ascoltando una stazione di cui non ricordo il nome, schiacciata da due canali di musica. Era giovedì 20 ottobre e la mia settimana di lavoro stava finendo. Avevo allogiato per cinque giorni nella grande capitale italiana per occuparmi di un articolo sui così detti "indignados" scesi in piazza il 15 ottobre scorso. Nonostante la natura spagnola del termine è immediato capire il suo significato: "indignati", ma indignati per cosa?
Per il presente che temano distruggere l'ancora celato futuro. Principalmente la manifestazione vedeva come protagonisti giovani che si trovano a coltivare sul cemento e che hanno paura di non riuscire a sistemare la loro vita, costernata di crisi e incertezze.
Temono di rimanere nudi di quelle possibilità che ebbero i loro genitori, vivendo così nel ricordo e nella fantasia di un futuro migliore.
Questo evento ebbe anche dei riscontri negativi e violenti e ciò di che discutere e riflettere.
Si crearono diverse opinioni a favore o meno riguardo questa manifestazione.
Comune resta, però, l'idea su quale sia stata la causa scatenante, fuori dall'ambito politico, di tutto questo rancore: la mancanza di speranza che attutisce ogni voglia di cambiare anche se ne permane il desiderio.
Questo, però, si può concretizzare e ne diedero prova, per esempio, i nostri avi, come sottolinea Gianni Credit de "Il sussidiario. net" che nel 1945 riuscirono ad uscire da quel continuo tentativo di crisi, o chi, invece di gettare una manciata di grida, si dà da fare lavorando per cercare di ricostruirsi. Dobbiamo ergerci sul nostro passato. Mi sento inoltre in dovere, data la mia opinione contro le manifestazioni illusionistiche, di discutere quello che descrisse lo stimobile giornalista della "Stampa" Mario Calabresi, il 16 ottobre -Perchè si dice (...) distruggere-. Dovremmo quindi rovinarci e non rialzarci più?
Se avessero fatto così chi ha vissuto durante e dopo le guerre mondiali or non saremmo qui... Dopo aver distrutto ciò che abbiamo, cosa ci resta se non pugni insanguinati della fatica del passato?
Nulla, non risolveremmo nulla.
Non possiamo crescere sul guazabuglio di una prosaica mescolanza di diritti, tempi e doveri, dobbiamo concretizzare i nostri pensieri e desideri, non con parole ma con fatti, non con cartelloni di cartone ma con pugni di ferro e la voglia salda di cambiare il mondo.
Che ali vogliamo aggrappare alla nostra libertà, al nostro futuro? Quelle di cui la speranza e, oso dire anche la fede, ci accessoria l'anima.
Benedetto XVI disse, il 22 settembre 2011davanti al parlamento federale, che bisogna "Vedere di nuovo la vastità del mondo", proviamoci, scostiamo dai nostri occhi la rabbia e la delusione, aprendo mente ed anima al mondo, al futuro ed alla speranza.
Stiamo marciando su una nebbia fitta di illusioni e tessuta di parole che lascia spazio all'ennesimo cadavere livido del futuro.
Dobbiamo imparare a dar vita alle nostre parole, non solo voce ai nostri pensieri.
Lucia Buratti 4° liceo